Confronti

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Lo spazio della spiritualità nella cura

Una intervista di Silvana Quadrino a
Sandro Spinsanti fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le medical humanities, già docente di etica medica all’Università Cattolica  di Roma  
Sergio Manna Pastore valdese, Cappellano clinico, Supervisor in Clinical Pastoral Education (CPE), Professore incaricato di pastorale clinica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma


SQ
Possiamo tentare una definizione di spiritualità?  Come si può superare il dualismo materiale/spirituale?

Spinsanti

Sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”, che ho voluto evitare nel titolo del mio libro [1],  ripiegando sulla aggettivazione: la dimensione spirituale. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea.
Anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”).
È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito.

Manna

Esistono molte definizioni diverse di spiritualità e non credo di poterne dare una migliore delle tante che si trovano in circolazione. Dal mio punto di vista la ricerca di senso, scopo e orientamento per la propria vita è di per se stessa una manifestazione di spiritualità, in maniera particolare quando in questa ricerca non si esclude dal proprio orizzonte la trascendenza.

SQ
Spiritualità e religione. Sono legate strettamente, o la seconda è come scrive Sandro un modo per “dare casa” e forma, parole, riti alla spiritualità, ma non l’unico modo? In sostanza, possiamo pensare a una spiritualità che non si collega necessariamente alla religiosità?

Spinsanti

Forse la prima necessità è quella di scompaginare il modo in cui la spiritualità religiosa è collocata nell’ambito della cura. Anche se la società è ampiamente secolarizzata, persiste la collocazione residuale della religione nello spazio lasciato libero dal ritiro della medicina. È l’eco del tradizionale: “Non c’è più niente da fare; chiamate il prete”.
La provocazione consiste nell’affermare che ogni persona – indipendentemente se abbia o no una sua collocazione in una comunità di credenti, e qualunque questa sia: una considerazione non irrilevante nel contesto di una società pluralista quale siamo diventati – ha diritto a uno spazio in cui possa confrontarsi con le questioni di senso, nell’orizzonte dell’autorealizzazione personale.
La spiritualità in questo senso non viene dopo la cura (medica), ma fa parte della cura stessa.
La questione a questo punto diventa: siamo pronti a questo cambio di scenario? E ancora: come formare professionisti che siano competenti nel proporre questa modalità di approccio?

Manna

Si può tranquillamente affermare che in un certo senso la religione, o meglio le religioni (se vogliamo assumere un approccio che rispetti il pluralismo), siano dei cantieri in cui ci si adopera per dare casa alla spiritualità; in maniera particolare quando la spiritualità intende esprimersi in forme e modi vivibili, praticabili e condivisibili in una dimensione comunitaria piuttosto che meramente individuale e solitaria. Direi che le religioni, nelle loro migliori espressioni, aspirano alla possibilità di andare oltre l’individualismo, perché esiste talvolta anche un individualismo spirituale che è in fondo quello che ti porta, non di rado, a farti un dio a tua immagine e somiglianza, qualcosa che non può essere altro che un idolo, secondo le categorie bibliche. Con questo, ovviamente, non intendo dire che ogni spiritualità individuale sia idolatrica. Gesù stesso, infatti, invitava a coltivare una spiritualità personale oltre a quella vissuta comunitariamente (Cfr. Matteo 6,6).

SQ
Lo spazio per la spiritualità nei luoghi di cura: dove possiamo vederlo? Sembra di vedere due mondi separati, quello della cura tecnica, precisa e concreta, che va veloce e non concede spazi all’affiancamento del malato, all’ascolto dei suoi pensieri fra vita e morte, al conforto dell’anima, e quello “concesso” ai professionisti della spiritualità. Accade che non sia così, che quei confini si attenuino e la cura accolga la spiritualità? Cosa potrebbe facilitare questa fusione?

Spinsanti

Lo spazio per la spiritualità nei luoghi di cura lo possiamo intendere sia in senso fisico che simbolico. Nella prima accezione abbiamo ancora difficoltà a immaginare dei luoghi che siano inclusivi e non esclusivi. Ho avuto il privilegio di conoscere qualcuno degli ambienti pensati con un’ottica di funzionalità pluriconfessionale, compresa anche l’opportunità di creare un luogo di silenzio e di meditazione. Cito in questo senso l’esperienza del nuovo ospedale di Prato.
Realisticamente, però, dobbiamo riconoscere che se gli ospedali si profilano come il luogo dell’acuzie e dei trattamenti intensivi, la creazione di tali spazi sembra un luogo superfluo. Sono più pertinenti le strutture di lungodegenza, le residenze assistite e gli hospice.
Lo spazio in senso simbolico è quello che ci aspettiamo favorito da professionisti attenti, che resistono alla spinta verso il riduzionismo bio-medico, e da cittadini che rivendichino un’accezione ampia della cura. Senza questa crescita di sensibilità e di esigenza, la spiritualità resta poco più che un residuo folklorico.

Manna

Un approccio olistico alla cura, che si concentri sulla persona tutta intera e non soltanto sulla malattia, dovrebbe dare spazio a ogni dimensione dell’essere umano, inclusa quella spirituale. Anton Theophilus Boisen (1876-1965), pastore presbiteriano e padre della Clinical Pastoral Education, diceva che per imparare a curare bisogna innanzitutto imparare a leggere il “Living human document” (documento umano vivente), cioè il singolo essere umano nella sua complessità biologica, biografica, emotiva, psicologica e spirituale. Questo richiede in primo luogo la capacità di ascoltare empaticamente chi ci sta di fronte; qualcosa che vale per tutte le persone coinvolte nel processo di cura           
 Un mero approccio confessionale, che non parta dall’ascolto dei bisogni umani e spirituali della persona che abbiamo di fronte, non è cura. Ogni atto di cura spirituale deve incarnarsi nella situazione concreta della persona che abbiamo di fronte. Un operatore spirituale, pastore o laico che sia, può offrire molto se sa innanzitutto ascoltare in maniera empatica, se sa accogliere con vivo interesse la narrazione di chi gli sta di fronte, se non si affretta a rispondere con frasi fatte, preghiere generiche non richieste e letture sacre che non hanno nulla a che vedere con quanto espresso dal paziente; può offrire molto se sa accoglierne anche la rabbia e perfino la bestemmia senza scandalizzarsi, senza fuggire.      
Se vi è vero ascolto, vera vicinanza umana e spirituale a chi soffre, quando si offrirà una lettura biblica sarà quella di un brano  in piena sintonia con lo stato d’animo del paziente, con la storia che lui o lei ci ha raccontato ; se vi sarà una preghiera sarà allora una preghiera che nasce da quelli che sono i desideri, le speranze, le ansie o le preoccupazioni che lui o lei ha condiviso con noi [2]         
Quanto allo  spazio per la spiritualità nei luoghi di cura direi che le strutture hospice, così come concepite da Cicely Saunders, e l’ambito delle cure palliative, nella loro concezione originaria, siano spazi nei quali potrebbe essere visibile la spiritualità e l’attenzione ad essa. Ma nell’applicazione dei modelli originari al contesto italiano, le cose a mio parere non sono andate del tutto a buon fine, perché proprio l’aspetto della cura spirituale è paradossalmente quello meno curato. E il problema è di nuovo lo stesso: cioè la mancanza di una solida formazione pastorale clinica delle persone addette alla cura spirituale.

SQ
Come ci si accosta alla spiritualità del malato, o del suo famigliare? In che modo si può entrare in contatto con un aspetto così personale, a volte inesplorato perfino dalla persona stessa, in momenti emotivamente intensi, senza fare né il predicatore né lo psicologo né il filosofo?

Spinsanti

Il proprio ideale di spiritualità, abbinato spesso a un atteggiamento filantropico, porta alcune persone ad avvicinarsi a chi si trova in condizione di malattia o di disagio. È l’atteggiamento promosso dalla visione religiosa del buon Samaritano.
Ben vengano comportamenti di questo genere. Ma non senza stare in guardia: anche con le migliori intenzioni si rischia di fare violenza al prossimo. Così come bisognerà fare attenzione a evitare atteggiamenti predicatori e di indottrinamento, particolarmente irritanti nell’ambito sanitario, quando la persona si sente fragile, esposta a una spiritualità invadente.
Non è fuor di luogo annotare l’ammonizione che il card. Veuillot, già vescovo di Parigi, dava dal suo letto di ospedale: “Sappiamo fare delle belle frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne niente: noi ignoriamo quello che è”
L’invadenza non è solo di marca religiosa. È il caso di ricordare la sferzante ironia con cui Manzoni ha creato il personaggio di Donna Prassede, vecchia gentildonna molto incline a far del bene. “Mestiere certamente il più degno che l’uomo possa fare – annota il romanziere – ma che purtroppo può anche guastare, come tutti gli altri”.
Se la spiritualità ci induce a stare in punta di piedi sulla terra, quando si traduce in vicinanza a chi soffre diventa un caldo invito alla maggiore leggerezza possibile. E soprattutto di tradursi in un vero ascolto, come primo e fondamentale atto di comunicazione.

Manna

Con molto tatto e rispetto, senza approfittare della situazione di malattia per inculcare la propria visione confessionale o dogmatica, perché questo sarebbe un abuso. Bisogna partire da ciò che il paziente o il familiare ci porge. Talvolta dopo aver ascoltato un/a paziente che ci racconta la sua storia di vita e di malattia si possono utilizzare domande di carattere esplorativo, come ad esempio “Cosa le ha dato la forza di affrontare tutto questo?” alle quali, non di rado, le persone danno delle risposte che lasciano trasparire la loro spiritualità o comunque qualcosa della loro ricerca.  
Fare il predicatore, il catechista o il filosofo in queste situazioni è fuori luogo. Da cappellano devo sapere che la domanda “Perché Dio mi fa questo?” non è una domanda teologica che richieda una catechesi o un sermone, bensì un grido d’aiuto al quale si risponde con l’esserci, con la presenza personale (non di rado silenziosa) e che quella presenza può comunicare molto di più la vicinanza di Dio di quanto non possano fare tutti i sacramenti, mille discorsi o i migliori testi di teologia o di spiritualità.           
Ci sono poi quelle domande di carattere spirituale che qualche volta i pazienti esprimono quando sentono che stanno per lasciare questo mondo e che non vengono necessariamente rivolte al prete, al pastore, al cappellano o alla suora, alle quali tutti dovrebbero imparare a rispondere, perfino chi si ritiene agnostico o ateo. Ad esempio: “Chissà cosa c’è dopo la morte. Chissà se c’è un al di là. Chissà cosa mi aspetta”.
Anche in questo caso bisogna guardarsi dal dare delle risposte preconfezionate di tipo dogmatico e replicare, piuttosto, in maniera da dare spazio all’esplorazione della dimensione spirituale della persona. In tal senso, a questo genere di domande bisognerebbe rispondere dicendo: “Lei come se lo immagina? Come vorrebbe che fosse l’al di là?”. E poi porsi all’ascolto della risposta della persona. Questo può farlo anche l’ateo, l’agnostico o il diversamente credente.           
Credo, comunque, che debba comportarsi così anche il cappellano o la persona religiosa che in quel momento accoglie la domanda. Dopodiché, se la persona mi chiederà poi cosa credo io riguardo all’al di là, non esiterò a esprimere quella che è la mia visione e la mia fede, che ovviamente non imporrò a lei.

SQ
Spiritualità negli interventi di cura e “umanizzazione” della cura: parliamo della stessa cosa? Come si possono formare i professionisti sanitari a una cura che accolga la spiritualità e ne faccia un elemento irrinunciabile del loro intervento? Cosa manca, e come dovrebbe/potrebbe cambiare nella formazione dei medici e degli infermieri?

Spinsanti

Ci sono modalità di praticare la cura in ambito sanitario che disapproviamo. Sono i trattamenti che non vorremmo per noi stessi, e quindi neppure per gli altri. Se abbiamo in mente crimini e ingiustizie, li dobbiamo contrastare con la legge, facendo intervenire i NAS. Se pensiamo a trattamenti inappropriati e umilianti, dobbiamo ricorrere a strumenti più soft. All’etica, in primo luogo.
Pensiamo a quante proposte di cambiamento in sanità sono state condotte in nome della bioetica. In questo scenario la spiritualità si presenta in modo ancor più leggero dell’etica. Non comprende comportamenti che possiamo esigere per legge e neppure quelli che auspichiamo ricorrendo alla “moral suasion”. La cura che prende forma sull’orizzonte dell’umanità nella sua completa fioritura non può essere imposta. La spiritualità non si insegna come una disciplina da inserire nel curriculum formativo dei professionisti. Possiamo solo auspicare che si creino ambienti ideali nel quali la cura possa essere “sobria-rispettosa-giusta”, come auspica il movimento della Slow Medicine. E che la più alta qualità spirituale si diffonda per imitazione e per contagio.

Manna

A mio parere sono due facce della stessa medaglia. Umanizzare la cura significa accogliere anche la dimensione spirituale delle persone che siamo chiamati a curare. I professionisti sanitari andrebbero formati anche a questo.     
Nella Facoltà di Medicina dell’Università di Monaco di Baviera, tanto per fare un esempio, già nel 2010 è stato istituito un corso di “Spiritual Care” nell’ambito della cattedra di medicina palliativa. Ritengo che questo tipo di corsi, gestiti da professionisti attenti anche al pluralismo religioso e spirituale, possano contribuire a umanizzare ulteriormente le cure anche insegnando a cogliere e a rispondere ai bisogni spirituali delle persone curate, nonché (perché no?) a quelli dei curanti. Mi piacerebbe che i luoghi di cura potessero avere professionisti sanitari formati alla sensibilità verso i bisogni spirituali dei pazienti, tanto da da rendere quasi superflua la presenza dei cappellani.

SQ
Un’ultima domanda a Sandro, legata al suo ultimo libro: s
ono interessanti le relazioni che stabilisci tra la spiritualità nella cura e le molte angolature da cui possiamo guardarle. Un esempio è la relazione tra spiritualità e arte. Come tradurre in concreto questa possibilità e renderla fruibile nei contesti di cura, del corpo e dello spirito?

Spinsanti

Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci.

Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.


[1] S. Spinsanti, Sulla terra in punta di piedi:  la dimensione spirituale della cura, Il Pensiero Scientifico 2021  https://pensiero.it/catalogo/libri/pubblico/sulla-terra-in-punta-di-piedi

[2] Sull’uso delle Scritture nella cura d’anime cfr. Sergio Manna, L’ascolto che cura. La Parola che guarisce. Introduzione al counseling pastorale , Claudiana, Torino, 2017, cap. 4, pp. 49-57.
Sulla preghiera nella cura d’anime cfr. Sergio Manna, ivi, cap. 5, pp. 59-63.

 

Tags: S.Quadrino


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