Le decisioni, la ragione e l’illusione della decisione perfetta

Intervista a Vincenzo Crupi a cura Silvana Quadrino
Enzo Crupi, docente di filosofia all’Università di Torino, da anni dedica parte della sua ricerca ai processi decisionali, e conduce spesso incontri e seminari che CHANGE propone ai professionisti sanitari e sociali sul tema delle decisioni condivise. Gli abbiamo chiesto
S.Quadrino
I professionisti che devono prendere decisioni che riguardano le persone di cui si occupano - professionisti sanitari, operatori sociali – sottolineano spesso il disagio, talvolta l’angoscia che provano nel rendersi conto di non avere strumenti per essere certi che le loro decisioni saranno quelle giuste. Lo studio dei processi decisionali può aiutarli?
V.Crupi
Può essere interessante ricordare che i primi studi approfonditi sui processi decisionali non hanno riguardato le decisioni della vita quotidiana, e neppure quelle legate a interventi di aiuto o di cura, ma sono nati nel mondo dell’economia. In un mondo cioè in cui sono necessarie decisioni rapide in situazioni di incertezza, di scarsità di informazioni, di rischio
Diversi fenomeni — alcuni clamorosi, come crisi economiche inattese — hanno messo in discussione la teoria della “scelta razionale”, diffusa negli anni ’50 che descrive la decisione come il calcolo di un agente che muove da opinioni e preferenze perfettamente coerenti.Un paio di decenni più tardi due psicologi israeliani, Kahneman e Tversky avviarono alcuni studi sperimentali sullla “razionalità limitata” nel campo delle decisioni economiche, per i quali Kahneman riceverà anche il Nobel per l’economia. Ciò che questi esperimenti e osservazioni hanno messo in luce è che, in una situazione decisionale complessa, l’inevitabile incompletezza delle informazioni disponibili, la limitata capacità della mente umana di elaborare le informazioni, la scarsa disponibilità di tempo e altri elementi contestuali causano deviazioni sistematiche dai principi razionali più astratti della decisione.
Le ricerche di Kahneman, Tversky e altri sovvertono un’idea rassicurante: contrariamente a quanto ci piace pensare, le nostre decisioni sono influenzate da meccanismi cognitivi che producono errori di valutazione spesso inconsapevoli, ricorrenti e sistematici. Lo studio dei processi decisionali ci aiuta ad accettare il fatto che la decisione perfetta, quella che avrà sicuramente e soltanto esiti positivi, non è umanamente possibile.
S.Quadrino
Nella tua esperienza questa consapevolezza non è frustrante per i professionisti che tentano di utilizzare tutto il loro sapere per arrivare alla decisione migliore per le persone che curano e per non fare errori?
V.Crupi
Lo studio dei processi decisionali può aiutare studiosi e professionisti di ambiti diversi a riflettere sulle “euristiche”, cioè sugli schemi mentali che, in situazioni di incertezza, producono inferenze e giudizi fallaci, quelli che definiamo “bias”. Sapere che le decisioni risentono di scorciatoie cognitive e di determinanti emotive è l’unico modo che un professionista ha per non subire queste interferenze in modo inconsapevole, e quindi per migliorare il proprio processo decisionale anche nelle situazioni di maggiore incertezza, ad esempio nella medicina di urgenza, che è un ambito di cui mi sono occupato particolarmente.
Sicuramente la riflessione sui propri meccanismi e processi decisionali ha una componente potenzialmente dolorosa, perché si scoprono i limiti di ciò che si fa abitualmente. D’altra parte però quando si ha più consapevolezza dei processi decisionali, e si svelano i “trabocchetti” in cui tutti possiamo cadere, si scopre anche che esiste una forma fondamentale di “errore senza colpa”, che non nasce dalla negligenza o dalla scarsa competenza del professionista ma è legato al il modo in cui pensiamo. Anche le persone con le migliori intenzioni, competenze e risorse possono commettere questo tipo di errore: perchè siamo dei ragionatori imperfetti. Una maggior conoscenza dei processi che portano all’errore e dei meccanismi decisionali in generale è un aiuto importante per far fronte allo stress che nasce dal timore di sbagliare, e spesso per ridurre i margini di errore, e le loro conseguenze.
S.Quadrino
Tuttavia, quando la decisione che un professionista ha preso produce effetti negativi, o non produce gli effetti sperati, ci si trova a fare i conti con il senso di colpa, oltre che con il rischio di conseguenze legali. Cosa può proteggere i professionisti dal rischio di non decidere per timore di sbagliare?
V.Crupi
Valutare se una decisione è buona o no non è semplice, perché molte decisioni vengono prese (e devono essere prese) quando la mappa delle informazioni disponibili è intricata o confusa. Ci sono praticamente sempre elementi di incertezza più o meno numerosi . Soprattutto, nella maggior parte dei casi non c’è una consequenzialità necessaria tra l’azione e l’effetto: su quello che accade “dopo” l’azione influiscono fattori che al momento della decisione non erano presenti, non erano rilevabili o non erano prevedibili. Tuttavia, in genere, dopo che una decisione è stata presa gli esseri umani hanno una fortissima e irresistibile tendenza a valutarne la qualità in base ai “risultati”.
Rispetto a questa tentazione, per quanto naturale, occorre essere vigili. In una situazione complessa e in presenza di dati di incerta interpretazione, infatti, esistono “buone decisioni con esiti negativi”, e “cattive decisioni che hanno risultati positivi”. In teoria lo sappiamo. Ma è difficile controllare la tendenza a valutare le decisioni sulla base di “come è andata a finire”. Questo “trabocchetto” può influire negativamente sotto diversi aspetti: ostacola i processi di apprendimento “sul campo” creando ad esempio la falsa certezza una certa decisione sarà valida in ogni caso, solo perché una volta ha avuto un esito positivo. Oppure, può bloccare il professionista in un senso di colpa e di imperizia che, paradossalmente, lo espone maggiormente al rischio di errori futuri.
Essere più consapevoli del fatto che valutare una decisione con il “senno di poi” è una scorrettezza logica permette di fronteggiare meglio le situazioni in cui gli esiti non sono stati positivi, anche nei confronti di eventuali accuse dei pazienti e dei famigliari.
S.Quadrino
Parlavi del rischio delle false certezze, che può portare a considerare “buona per sempre ” una decisione che ha avuto effetti positivi in qualche occasione. Credo che sia un tentativo che tutti noi mettiamo in atto inconsapevolmente per alleviare la fatica dell’indecidibilità attingendo a esperienze precedenti che somigliano a quelle che stiamo affrontando: un meccanismo del tipo “ho già visto situazioni simili, tutte le altre volte ho deciso in questo modo, perché non dovrebbe andare bene questa volta?” In che modo si può imparare a difendersi da questo rischio?
V.Crupi
Nelle discipline che si occupano di decisioni si usa il termine euristica per definire i meccanismi che descrivi. Sono meccanismi che semplificano i problemi rendendoli più “gestibili” rispetto al tempo e alle risorse di cui disponiamo per risolverli. Va detto che le euristiche sono strumenti necessari e utili: nessuno di noi può avere le competenze e le risorse per analizzare a fondo ogni situazione di incertezza. Il problema è che le euristiche possono anche portarci ad errori di giudizio: per questo è importante capire in quali circostanze si presenta questo rischio per riconoscerlo e nei limiti del possibile evitarlo. Una vera e propria ricetta purtroppo non esiste. Ma è possibile allenarsi a riflettere sul modo in cui prendiamo decisioni nella nostra attività quotidiana, per scoprire quali sono le più comuni, se e quando le utilizziamo, e quali utilizziamo di più.
C’è una classificazione abbastanza condivisa dei diversi tipi di euristica, e imparare a codificarle e a condividerle nei gruppi di lavoro può dare risultati importanti. Non si tratta di un puro esercizio teorico, ma di collegare nozioni e concetti apparentemente astratti con le esperienze che sono familiari soltanto a chi lavora in un determinato campo.
Potrebbe essere molto interessante ad esempio capire quali sono le euristiche che emergono più frequentemente nel lavoro sociale ed educativo, o in determinati ambiti del lavoro sanitario: su quali basi sono nate e si sono consolidate, e in quali casi possiamo aspettarci che quell’automatismo produca un problema o un errore. È un tema di ricerca affascinante con potenzialità applicative notevoli.
S.Quadrino
Potrebbe essere una proposta per un lavoro di ricerca per i professionisti sanitari e sociali che avvertono l’importanza di approfondire il tema delle decisioni in situazioni di incertezza e sui rischi delle false certezze. Anche perché la speranza di ridurre l’incertezza applicando schemi di comportamento e procedimenti consolidati dall’esperienza è difficile da abbandonare.
V.Crupi
Attenersi a qualcosa che è già stabilito è indubbiamente rassicurante quando si deve decidere in situazioni di incertezza, perché così si evita una ulteriore fatica decisionale. Un esempio: se si espone a due gruppi diversi un problema con due scelte alternative (A o B) poi si presenta a un gruppo l’alternativa A e all’altro l’alternativa B come quella “standard” (“default”), ciascuno dei due gruppi tenderà a preferire quest’ultima, anche se i contenuti della scelta nei due casi sono identici. Questo in medicina può dare luogo, ad esempio, a una variabilità dei trattamenti che un paziente può ricevere, legata alle consuetudini di un ospedale o di un gruppo professionale: il rischio è che vengano utilizzate decisioni di default, non più convalidate né adattate al singolo caso.
Credo comunque che imparare a riconoscere i “trabocchetti” dei percorsi decisionali dovrebbe diventare parte del bagaglio personale di tutti i professionisti. Su questi temi il libro di Kahneman, Pensieri lenti e veloci è un riferimento fondamentale che consiglierei a tutti di leggere
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