Confronti

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Dialogo

Fra un vecchio medico (G.Bert) ed una studentessa pensierosa

intercettato da Silvana Quadrino

Medico
Confesso di fare fatica a immaginare come è oggi avere ventidue, ventitrè anni, e voler fare il medico. Per esempio mi chiedo se per una “studentessa pensierosa” come te i libri sono stati importanti, per farti diventare quella che sei e anche per farti scegliere questa  strada. Io oggi so che anche se nella mia vita ho letto migliaia di libri, quelli che contano, che ricordo, che ancora mi coinvolgono sono poche decine, letti quasi tutti prima dei venticinque anni. Sono quelli gli anni in cui costruisce la bussola che ti guiderà nelle molteplici vite che ti aspettano; gli anni in cui impari a costruire mappe, mappe di mappe, narrazioni… Che ti permetteranno di muoverti nella terra incognita che ti attende con un misto di ansia e di curiosità. Senza la curiosità, che si sviluppa e si coltiva da giovani, resta solo l’ansia o la routine rassicurante ma desolata. Per te la strada che hai scelto di percorrere è quella della facoltà di Medicina, poi altre strade si apriranno, la scelta della specialità, il luogo in cui lavorare, il modo in cui lavorare. Cosa ti sta preparando a tutto questo?  

Pensierosa
Anche per me il mondo in cui ha vissuto un vecchio medico come te è misterioso: ne so poco, e  lo sento molto diverso da quello in cui sto vivendo io, sebbene non sia passato molto tempo

Devo dire che questo ultimo periodo particolare mi ha quasi congelata nel tempo, non so se per caratteristiche mie; credo che molti altri giovani abbiano questa sensazione. E allora, cosa mi sta preparando… sono d'accordo per quanto riguarda i libri che lasciano un segno. Certo alcuni mi hanno coinvolto in un determinato periodo e ora non sono più così significativi; spero di poterne leggere altri che abbiano l’effetto di cui parli. Devo dire che da quando ho iniziato l'università mi accorgo di avere meno tempo per leggere, e questo è un peccato. Ci sarebbe da riflettere sul fatto che l’impegno universitario sia strutturato in modo da farti percepire la lettura come un lusso, come se si togliesse tempo all’impegno vero. Mi stai facendo riflettere sul fatto che in questo modo si finisce per smettere di coltivare la curiosità, forse è questa una delle carenze della formazione universitaria che sto sperimentando.  

Medico
Forse la curiosità si può coltivare, chiedendosi per esempio che cosa sento che mi manca in quello che sto studiando. Che domande mi faccio, a cui non trovo risposte, e poi non ho tempo per cercarle leggendo qua e là, magari non di medicina ma di filosofia, di storia, o anche solo ripensando a un romanzo, a un film. Quando parliamo di mancanza di medical humanities nella formazione del medico pensiamo a questo, noi quella ricerca forse la facevamo senza neanche pensare che ci sarebbe stata utile, perché anche il liceo ci aveva abituati a questo. Tu che domande ti fai, che interrogativi ti poni?

Pensierosa
Dopo i primi due anni di Medicina immagini che le risposte a quello che ti sembra che ti manchi le troverai negli anni successivi. Poi perdi un po’ le speranze, perché non sapremmo neanche a chi chiederle, quelle risposte. Ad esempio una delle   domande che mi faccio in questo ultimo periodo, anche pensando a una specializzazione, è se l’aumento della specificità delle diagnosi sia un vantaggio o meno per il malato.  Lo pensavo per le malattie mentali, ma credo che valga in generale. Certamente avere una diagnosti può aiutare il paziente e il medico, ma è abbastanza inquietante pensare che a questo punto, come scriveva Giovanni Berlinguer,  chiunque è malato di qualcosa: lui scriveva che si poteva calcolare statisticamente  che ogni europeo fosse affetto da due malattie gravi e mezza, e parliamo di parecchi anni fa .Se poi parliamo dei disturbi mentali, quello che mi chiedo è: aiuta davvero avere un nome per ogni tipologia di disagio? E più in generale fare il medico significa soprattutto riuscire a dare il nome giusto al disagio del paziente?

Medico
Per quello che riguarda il disagio mentale Il rischio è di non distinguere tra comportamenti e patologie: comportamenti giudicati “strani” possono essere etichettati con una diagnosi e diventare malattie. Con che vantaggio per il malato? La malattia mentale è soprattutto sofferenza per lui, il medico dovrebbe occuparsi di come ridurla, e come restituire a quel malato uno spazio di vita soddisfacente.
Ma questo vale in generale: hai ragione a chiederti se la cosa più utile che il medico possa fare per il malato sia la diagnosi. Negli anni ho finito per rendermi conto che la “passione” per la fase diagnostica, l’eccitazione che si prova nell’ “imbroccare” una diagnosi complessa è in fin dei conti un effetto di una formazione universitaria distorta , che spinge il medico a pensare che di fronte a un paziente che presenta dei sintomi  “deve fare qualcosa” a ogni costo. Risultato: eccesso di esami, e poi di interventi e di farmaci. Succede però che in molti casi (la maggior parte) non sia possibile “fare” niente o quasi, e allora  si tenta con i farmaci sintomatici (ti hanno parlato di anziani che assumono 15 o più “medicine”?). Ma è una specie di delirio di onnipotenza, che ti impedisce di chiederti “ cos’altro “ poter fare per questa persona, e alla fine trascina molti medici in uno stato di noia, di delusione per il proprio lavoro, di distacco relazionale.

Pensierosa
D’accordo sul  rischio di esagerare con gli esami pur di arrivare a una diagnosi, e anche sul rischio di dare troppi farmaci . Mi fermo però sul “che cos’altro” fare. Per quello che vedo i malati vogliono una diagnosi, e io non mi sentirei capace di decidere quando si passa dal “necessario” al “troppo”. E questo come si impara?  

Medico
Certo, il malato cerca la diagnosi perché  il mondo medico gli ha insegnato che senza diagnosi non potrà essere curato nel modo giusto. Ma se il medico prende in esame non solo i segni e i sintomi che possono aiutare per una diagnosi clinica ma la situazione complessiva di disagio e di malessere del malato (che non è solo organico!) può fare molto, almeno per limitare la sua disperazione e la solitudine: ascoltarlo, per esempio, non farlo sentire abbandonato dal medico “scienziato”. Che l’ascolto (che non è stare educatamente a sentire ma un ascolto attivo, dialogante, relazionale) abbia effetti terapeutici rilevabili anche sul piano organico lo dimostra anche la neurofisiologia.  Certo, l’ascolto attivo va appreso, mentre purtroppo l’accademia lo ignora; e allora bisogna informarsi, cercare al di fuori quello che può aggiungere ciò che manca. Fare il medico è difficile e faticoso, questo lo hai capito. Meglio attrezzarsi subito

Pensierosa
Vero, ascoltare è fondamentale. Le situazioni che sto sperimentando osservando i medici “strutturati” in reparto purtroppo rivelano non solo mancanza di capacità di comunicazione, ma anche, drammaticamente, mancanza di tempo. Sembra che tutto vada fatto di corsa, guai a fermarsi un attimo. A me pare impossibile poter comunicare efficacemente con un paziente senza dedicargli tempo e attenzione. Ma forse quando mi sentirò più autorizzata ad agire a modo mio, quando sarò davvero un medico e non una studentessa, riuscirò a impormi di trovarlo, quel tempo

Medico
Fra le cose a cui temo che l’Università non vi stia preparando ci sono tutti gli aspetti legati a quella che si definisce “la salute digitale” : la raccolta, la circolazione, il possesso dei dati sanitari di tutti noi, che fanno della e-Health una grande risorsa ma anche un grande business. Ci sono aspetti tecnici – come il medico deve saper usare le piattaforme disponibili – e etici che voi giovani dovreste conoscere a fondo, su cui dovreste informarvi e interrogarvi. Sono queste le nuove frontiere della medicina che la tua generazione dovrà affrontare. Per me è un altro mondo...Ha dei colleghi coetanei con cui confrontarti?

Pensierosa
Questo è un altro aspetto critico: non ci sono molte occasioni di confronto fra compagni di corso, e non è solo una conseguenza della pandemia. In ogni caso di questi aspetti non ho mai sentito parlare a lezione, e mi viene il sospetto che non interessi né ai professori, magari perché anche per loro è un mondo estraneo, né  ai miei compagni.   

Ad esempio, abbiamo affrontato qualche nuova metodica diagnostica o di controllo che utilizza l'intelligenza artificiale o la trasmissione di dati direttamente a un centro ospedaliero in modo da monitorare alcuni parametri, ma il problema della privacy non è mai stato posto da nessuno di noi. Io stessa non avevo mai pensato alla circolazione di dati in quest'ottica, mi si aprono una quantità di interrogativi: si può evitare di utilizzare queste tecnologie? Cosa è possibile fare per controllare il meglio possibile la circolazione dei dati? E sentirsi “spiati” da “big data” ridurrà ancora di più la fiducia delle persone nei confronti del medico?

Medico
Questo ti porta a vedere quanto il lavoro del medico possa e debba essere anche impegno, personale e politico. Perché a questo punto dobbiamo parlare di potere:  il possesso e il controllo dei big data sono potere,  e il potere considera la salute un business e la medicina una fonte di profitto. A questa visione dobbiamo contrapporre una visione etica della cura, che  ci impone di riportare al centro la relazione col malato e il contesto sociale e antropologico in cui essa avviene. Per questo, senza smentire i vantaggi dell’informatica, si è tenuti a svelare e a denunciare gli aspetti in cui la medicina fa il gioco del potere e non della persona individuale e collettiva.

Quello che il medico può fare è illustrare le opzioni disponibili e spiegarne vantaggi e svantaggi, per poi accettare la scelta del paziente.  

Pensierosa
Ma secondo te cosa vuol dire essere un bravo medico?

Medico
Ti propongo una distinzione fra “bravo medico” e “medico bravo”. E’ una distinzione importante, che ha a che fare con il modo di agire e il modo di “essere medico”:

Il bravo medico si muove   con sapiente disinvoltura tra segni, sintomi, diagnosi, terapia così come gli suggerisce la clinica dei testi e delle lezioni. 

Il medico bravo conosce certo la clinica dei trattati me è, in più, sempre consapevole dell’incertezza. Incertezza diagnostica soprattutto: la medicina, ammesso che sia una scienza, non è una scienza esatta ma probabilistica, e la clinica dei trattati non può attagliarsi senza variazioni a ogni paziente.

E poi bisogna tenere conto della spesso terrorizzante incertezza del paziente stesso, che spesso nemmeno la fede nella “scienza”, e forse nemmeno la fiducia nel medico riescono ad esorcizzare

Ecco, il medico bravo si muove tra questi due tipi di incertezze, deve essere in grado di accettarle, accoglierle , farle convivere, inserirle nel processo decisionale che comunque deve alla fine portare a una scelta che contiene l’incertezza del risultato.

Sapersi muovere con accettabile sicurezza in un mondo incerto e in larga parte ignoto (chi è davvero quel paziente? In quale contesto vive? Cosa è il “suo bene”, il meglio per lui? ) è ciò che distingue il medico bravo. Per diventarlo, le strade sono quelle di cui abbiamo parlato: studio e arricchimento di sé. Clinica e humanities. Rigore e immaginazione. E’ la formazione che da vecchio medico auguro a tutti i futuri medici, meglio se pensierosi.


Tags: S.Quadrino


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