Grand'angolo

Pensieri sulla cura come accoglienza, attenzione e rispetto in tutti gli ambiti della realtà di oggi


Medicina di territorio

Un anacronismo inutile o una risorsa da potenziare?


Pier Riccardo Rossi, Simonetta Miozzo  MMG Torino

La sanità territoriale in Italia è periodicamente oggetto di dibattito: c’è chi ne sottolinea le carenze e l’inutilità in una sanità superspecialistica, chi guarda all’Europa e ai finanziamenti in arrivo dopo la pandemia con la speranza che finalmente si riesca a dare alle cure primarie il giusto valore e il necessario sviluppo. Ognuno è certo di avere la ricetta giusta, ma troppo spesso il dibattito si polarizza tra chi considera la medicina di famiglia responsabile della debacle territoriale durante il Covid e chi difende lo status quo considerandolo inamovibile.

Non sembra invece che sia in atto un ragionamento che parta dall'analisi dell'esistente, e che utilizzi dati e non soltanto impressioni. Proviamo a utilizzarli, questi dati, che provengono da enti non sospettabili di essere “dalla parte” della medicina del territorio. L’ultimo rapporto OCSE (o OECD, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – in inglese Organization for Economic Co-operation and Development)1 descrive la sanità territoriale italiana ai vertici dell’efficacia, secondo gli indicatori utilizzati.

Questo grafico può aiutare a capire meglio su cosa si basa questa valutazione

Sempre dallo stesso rapporto risulta che l'Italia è tra i paesi che spendono meno per i ricoveri definiti long care e per il personale addetto.  Sempre l’OCSE evidenzia che il numero dei posti letto ospedalieri si colloca ai livelli più bassi.
Questo significa che un’ingente mole di lavoro di cura si riversa sulla sanità territoriale e sulle famiglie.
Altro dato significativo che emerge e colpisce è, che mentre la sanità ospedaliera è finanziata per oltre il 96% dai soldi pubblici - ben al di sopra della media dei paesi OCSE - la sanità territoriale è finanziata soltanto al 58%, ben al di sotto della media degli altri paesi.

Un’altra fonte autorevole, il rapporto del Censis del 2018, rivela che la figura del medico di famiglia è apprezzata dall’ 87% delle persone consultate, la più alta percentuale di gradimento tra gli attori del sistema sanitario.

Prendiamo ora in esame la situazione generata dal Covid: come ha chiaramente argomentato il dottor Belleri sul suo blog  utilizzando i dati forniti dalla Protezione Civile, scopriamo che il 95% dei pazienti affetti da Covid è stata curata sul territorio. Analisi di dati dei singoli medici di famiglia sostengono la stessa cosa. Questa percentuale di pazienti seguiti dal MMG ricalca, seppur con una connotazione decisamente più drammatica, quanto succede regolarmente durante il periodo delle epidemie influenzali annuali. Insomma: tutti gli anni la medicina di famiglia durante l’epidemia influenzale ha il suo periodo di massimo lavoro, come dimostrano tutti i dati relativi ai contatti con il medico di famiglia rilevabili dal data base di Health  Search.

Il fatto è che, nonostante le epidemie influenzali, non COVID, siano ampiamente prevedibili, e nonostante il fatto documentabile che la maggioranza delle forme influenzali vengano sempre curate a domicilio – e questo è successo anche con il Covid - la piccola percentuale di pazienti che devono ricorrere al ricovero ospedaliero manda in crisi il sistema. Questo perché i Pronto Soccorso e la medicina ospedaliera cosi come sono organizzati non hanno la flessibilità necessaria per far fronte all’aumento di richieste di assistenza, ripetiamo prevedibili, legate a una epidemia influenzale,  che comportano un aggravio di lavoro sia per il medico di famiglia nella sanità territoriale, che per la sanità ospedaliera. A proposito di ciò, tutti gli anni si alza qualche assessore o qualche giornalista, che di fronte alla crisi dei pronto soccorso   si accanisce contro la medicina territoriale che non fa argine.
Il problema va affrontato seriamente, al di là degli schieramenti e della tendenza a individuare un colpevole quando una organizzazione complessa mostra di non funzionare come dovrebbe: l’impegno che intendiamo condividere con chi tiene alla qualità dell’assistenza sanitaria è di analizzare l’esistente in modo serio e obiettivo, per capire in che modo l’organizzazione di un sistema complesso, quale il sistema sanitario, possa essere migliorata globalmente, agendo su tutti i sottosistemi implicati, uno dei quali, ma non l’unico, è certamente la medicina di territorio.
Vale forse la pena ricordare che un recente articolo del BMJ evidenzia che la presenza del medico di famiglia accanto ad una persona per tutta la vita o almeno per lungo tempo, è un indicatore che migliora la salute e riduce la mortalità2.
Per chi come noi lavora da anni nelle Cure Primarie questa ricerca non fa che convalidare quello che osserviamo stando accanto con attenzione e impegno ai nostri pazienti malati e ai loro famigliari, e ascoltando le loro parole nei nostri confronti. Ma troppo spesso ci capita di subire un atteggiamento giudicante e punitivo nei confronti della categoria di cui orgogliosamente facciamo parte, con analisi assolutamente superficiali anche da parte giornalisti che si professano “esperti” in materia di sanità e di politiche sanitarie.
Molto spesso chi immagina un “sistema sanitario perfetto” commette errori logici imperdonabili: tipica la tendenza a immaginare una ipotetica organizzazione perfetta a prescindere dalla realtà, che spesso l’organizzatore immaginario conosce poco o superficialmente. Quando si parla di sistemi complessi non si può pensare alla loro organizzazione se non si tiene conto dell’oggetto del quale quel sistema si occupa. In questo caso l’oggetto è l'uomo, la persona, che ha determinate caratteristiche e fondamentali esigenze, fra cui la qualità della relazione con chi lo cura. Per molti pazienti ad esempio il fatto di non poter contare su una relazione continuativa con il   diabetologo,o con il cardiologo, perché non è previsto che sia sempre lo stesso specialista a seguire lo stesso paziente, è fonte di difficoltà e spesso di uso improprio delle risorse (accessi al pronto soccorso, richieste di nuove visite, scarso successo delle cure per la mancata adesione ecc.)

Quello che auspichiamo è che si possa aprire  un dibattito costruttivo sul cambiamento delle cure territoriali in Italia, anche a partire da dati che contraddicano la nostra posizione, ma senza ignorare i dati esistenti: i  dati dell'Ocse, anche se non rappresentano la verità assoluta, rappresentano un’opportunità di confronto tra sistemi sanitari diversi e tengono conto della realtà: si affidano a un criterio di benchmark che non va verso il sistema ideale ma appunto verso il miglior sistema possibile
Se vogliamo dare senso ai dati a cui abbiamo accennato all’inizio, ci sentiamo di dire che   il successo delle cure primarie in Italia, secondo i dati Ocse e l'apprezzamento dell'utenza secondo il Censis, stanno a dimostrare che il rapporto continuativo e significativo tra il medico di famiglia e il paziente è centrale nel sistema sanitario territoriale ed è alla base del buon funzionamento individuato e dell'apprezzamento rilevato. Oggi questo rapporto non è più caratterizzato da un paziente passivo e da un professionista direttivo, ma prevede un confronto che porta a decisioni condivise tra due persone che si conoscono e che hanno un obiettivo comune. Difficilmente otterremo un miglioramento del sistema se non si protegge quello che riteniamo il punto centrale del buon funzionamento della cura: la relazione. La relazione da proteggere e sviluppare non prevede solo la figura del medico di famiglia: quello che vogliamo immaginare e realizzare è un sistema di cure primarie in cui siano presenti altre figure professionali, come l’infermiere di comunità ed il personale di segreteria, che rappresentino per i cittadini una rete di riferimento stabile a cui rivolgersi per la gestione e la promozione della salute.

Vorremmo concludere con alcune domande su cui ci auguriamo sarà possibile aprire una discussione, magari in un dibattito su questa stessa rivista: 

  • Nel momento in cui il medico di famiglia diventasse dipendente del servizio sanitario nazionale la relazione tra medico e paziente potrebbe subire dei danni o perdere solidità?
  • In questo momento storico in cui diventa prioritaria la riformulazione del SSN il tipo di contratto del medico di famiglia non dovrebbe divenirne una conseguenza e non un obiettivo ?
  • In che modo il medico potrebbe comunque garantire il ruolo di advocacy3, cioè l’affiancamento del paziente nelle decisioni o nella valutazione delle cure tenendo conto del vantaggio del paziente, e non dell’organizzazione di cui si fa parte?
  • Come essere certi che il ruolo del medico di famiglia dipendente o meno non venga in seguito sostituito, in nome del risparmio, da cooperative private ed esternalizzato dando il via alla privatizzazione del sistema sanitario?

 Bibliografia

1 - OECD (2019), Health at a Glance 2019: OECD Indicators, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/4dd50c09-en.

2 - Continuity of care with doctors—a matter of life and death? A systematic review of continuity of care and mortality. Pereira Gray DJ, Sidaway-Lee K, White E, et al. BMJ Open 2018;8:doi: 10.1136/bmjopen-2017-021161

3 - «Aggiornamenti Sociali» Giacomo Costa AS 05 [2009] 386-389

Tags: P.R.Rossi, S.Miozzo


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