Dal di dentro

di Giulio Ameglio
Questo non è un saggio, non contiene riflessioni particolarmente approfondite né citazioni o riferimenti colti. É solo una narrazione, una storia che viene "dal di dentro", appunto, e cioè dall'interno di un’esperienza vissuta in prima persona di malattia e cura.
Lunedì 17 maggio alle 7 del mattino sono stato colpito da una emorragia cerebrale. Non è che me la sia autodiagnostica sul momento, l'ho naturalmente saputo solo dopo; sul momento gli unici pensieri che avevo erano rivolti alle sensazioni che stavo provando, un forte formicolio al braccio sinistro, rumori disarticolati e cavernosi che mi rimbombavano in testa, la vista che slittava lungo le pareti e sul pavimento di casa. Mia moglie Donatella mi ha immediatamente caricato in auto e siamo partiti per l'ospedale. E qui è iniziata la mia avventura, che, in un tentativo di semplificazione, con tutti i limiti che questo naturalmente comporta, dividerò in tre capitoli più un epilogo.
I GESTI
Sarà per le mie attitudini di fotografo, che in questi ultimi tempi della mia vita sono diventate sempre più ingombranti, sarà per lo stato particolare in cui mi sono trovato in questi giorni, ma prima di ogni parola, nel sistema ospedaliero in cui sono stato inglobato, sono stati importanti i corpi con i loro gesti. Corpi che si curvavano con dolcezza su di me steso su una barella prima e sul letto in un secondo tempo, corpi che si avvicinavano per aiutarmi con cautela a rimettermi in piedi, corpi che si avvicinavano ma già ruotati verso un’altra direzione verso cui proiettarsi, corpi che mentre io, impaziente paziente, misuravo la lunghezza dei corridoi del reparto andando avanti e indietro come in una vasca di piscina, si soffermavano un istante, magari anche accompagnandomi per qualche metro. E ancora corpi in rapido movimento che però sapevano fermarsi un momento per accompagnare una battuta e un cenno della testa, al contrario di quelli che parevano evitarmi, passandomi accanto senza percepire la mia presenza.
Questa danza di corpi avviene in un intreccio di sguardi. Le mascherine che ci coprono il volto hanno come effetto naturale l'esaltazione degli occhi. Ogni sguardo viene amplificato e segna in modo decisivo la modalità con la quale si modella la relazione.
Una classificazione necessaria è tra gli occhi che ti guardano mentre la persona sta entrando in relazione con te e gli occhi che fuggono, sempre impegnati nel guardare qualcos'altro, cartelle cliniche, medicinali, strumenti, in basso sui tuoi piedi o in alto sopra la tua testa. La dottoressa che mi ha preso in carico, ahimè, é stato l'esempio più clamoroso di questo atteggiamento. Non so se mi abbia mai guardato negli occhi nei giorni della mia degenza. Mi piacerebbe chiederle il colore, non dico dei miei occhi, ma dei miei capelli, se ero abbronzato o pallido (privilegio dei pazienti: non eravamo tenuti a indossare una mascherina). Non voglio che questo suoni troppo severo: ogni tanto uno sguardo mi veniva dedicato, ma uno sguardo, come dire, asettico, tecnico: non guardava i miei occhi, guardava i movimenti delle mie pupille.
Tutti diversi gli sguardi di quasi tutte le infermiere e infermieri nonché di operatrici e operatori (e poi, naturalmente, di un’altra dottoressa). Spesso sorridenti: paradossalmente ti puoi accorgere molto di più del sorriso delle persone se il volto rimane tutto nascosto tranne gli occhi. Sono stati occhi che hanno cercato i miei, che mi hanno visto, che hanno saputo cogliere la mia insofferenza, la mia ironia, la mia impazienza e la mia pazienza, la mia fragilità e la mia preoccupazione, rispondendo con uno sguardo che mi accoglieva e, soprattutto, si soffermava. A volte il loro sguardo sapeva persino anticipare le mie richieste "fuori norma": lo sguardo dell'infermiere alto e brizzolato che ammiccava complice quando stava per portarmi una tazza del caffè vero che si preparavano nella stanza degli infermieri, per esempio. O lo sguardo fintamente truce dell'infermiera rotondetta che avevo soprannominato “miss tampone”, mentre si avvicinava ogni due giorni per tamponarmi senza pietà, in un gioco reciproco di minacce e paura.
LA PAROLA
Dopo i gesti, le parole. Le prime che ricordo, nella confusione del pronto soccorso, sono state “Codice rosso, codice rosso”, comprese forse perché rese familiari da tante serie televisive. Un vago pensiero che mi ha attraversato la mente sballottata dalla situazione é stato che per la prima volta in vita mia non ero condannato ad attese senza fine e senza considerazione al pronto soccorso, ma che stavolta potevo passare subito, e subito, finalmente, si sarebbero occupati di me. Poi una sequenza di termini tecnici scambiati da medici o infermieri che rimbalzavano sopra di me steso sulla barella, e infine qualcuno che mi ha detto: ora farà la Tac. Poche istruzioni, il rumore, sta’ fermo, respira piano,... Finalmente una dottoressa che si china su di me e mi dice con calma, in tono tranquillo, che ho avuto una emorragia cerebrale in un posto delicato, ma fortunatamente é stata piccola, e non dovrebbero esserci danni. Rimane qualche istante a guardarmi, aggiunge che sarò in osservazione per 48 ore (la prima di una piccola serie di promesse - predizioni che saranno regolarmente smentite) e poi mi lascia nelle mani di altri che mi porteranno in reparto.
Qui le parole, esattamente come gli sguardi, si moduleranno su due piani fondamentali, le parole che mi riconoscono, e quelle che definiscono il mio ruolo di paziente.
Le prime sono parole che forse troppo banalmente definirei “umane”, nel senso che sono le parole che potremmo condividere con amici lungo la strada, amici che sanno dei miei guai, ma che pensano di renderli più sopportabili chiacchierando delle mie passioni, chiedendomi di me, scherzando, donando leggerezza. Ma anche le parole che ti rivolge una dottoressa spuntata dopo una settimana di degenza che, quando le dico che ho delle cose da chiedere, ti risponde: “Ma certo, andiamo in sala d’attesa, che è più tranquilla e riservata, e possiamo stare lì con calma per il tempo necessario”.
Le seconde sono le parole del meccanico che deve riparare una serie di auto danneggiate, con vari pezzi rotti o usurati, e l’officina è abbastanza piena, quindi si deve fare in fretta, non è possibile perdere tempo con il cliente; rimane sottinteso una sorta di tacito accordo: se hai portato la tua auto malfunzionante nel mio garage, vuol dire che ti fidi, no? Quindi non stiamo a perdere tempo con spiegazioni meccaniche che non capiresti e non chiedere cose assurde tipo quanto andrà avanti l’auto dopo la riparazione, domande che servono solo a seccarmi così poi ti rispondo piccato.
LA CURA
In un'esperienza di questo tipo si comprende veramente sulla propria pelle la fondamentale differenza che corre tra la “cura” e il “prendersi cura”.
La cura consiste in fondo nel garantire una serie di pratiche finalizzate a rimetterti in piedi controllando (nel mio caso), aggiustando o sostituendo i pezzi usurati o rotti, garantendo che i meccanismi riprendano a funzionare in modo più o meno adeguato per il tempo (si spera) più lungo possibile. La cura è definita dai protocolli, parola chiave che fornisce la cornice a gesti e parole, che non escludono certo saperi assolutamente necessari e intuizioni assolutamente auspicabili, ma che, come dire, sono autosufficienti e, in fondo, fanno a meno dell’essere umano.
Prendersi cura è al contrario, prendere la persona in tutta la sua malattia fragilità paura e insofferenza (quanto possiamo essere fastidiosi, noi malati!) e “abbracciarla”, cercando, mentre si prova ad aggiustare i pezzi, di accompagnare con leggerezza quella persona a rimettersi in piedi decentemente. Con i gesti e le parole necessari e, soprattutto con la pazienza, la capacità e la disponibilità ad ascoltare quanto arriva da quei corpi fragili.
EPILOGO
Ho iniziato a scrivere queste righe disteso sul mio letto in reparto, le concludo ora alla mia scrivania guardando ogni tanto il vento che agita gli alberi del mio giardino. Poi proverò a revisionare questa storia che indubbiamente un risultato l’ha già ottenuto: mi ha aiutato a iniziare l’elaborazione di uno dei più grossi spaventi che io abbia mai avuto.
Mi rendo perfettamente conto che ho tralasciato moltissimo di quanto concorre a dare anche solo una minima descrizione del sistema ospedale in cui ho trascorso otto giorni a della mia vita, in primo luogo le relazioni che ho instaurato con i miei compagni di percorso, logorroici o silenziosi, più o meno anziani, donne e uomini, con i quali il tratto fondante è stata la condivisione di storie. Ma questo mi avrebbe portato troppo lontano.
Per il resto, credo che il filo rosso sotteso a tutte le riflessioni che precedono questo epilogo sia uno solo: il tempo. Ancora una volta, al termine di questo percorso, mi rendo conto che una relazione che sia veramente di cura richiede il tempo, un tempo disteso, un tempo in cui si facciano tacere i rumori di altre esigenze, un tempo che possa fluire liberamente, per quanto possibile, tra le persone coinvolte.
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