Grand'angolo

Pensieri sulla cura come accoglienza, attenzione e rispetto in tutti gli ambiti della realtà di oggi


Il medico immaginario e il malato per forza

L’introduzione di Giorgio Bert alla riedizione dello storico libro del 1977 ( Durango edizioni, 2017)

Nessun discorso nasce nel vuoto. Anche questo libro, che pure a mio avviso mantiene una discreta attualità, è figlio di un clima, di un’atmosfera, di una cultura, di un mondo irripetibili; in poche pagine molto soggettive (non mi atteggio a storico) mi propongo di rievocare le tappe di un percorso che mi ha portato a riflettere sul medico immaginario e sul malato per forza.

Alla fine dei sonnolenti anni Cinquanta lavoravo in una sonnolenta clinica della sonnolenta università italiana da decenni simile a se stessa; facevo tutoraggio agli studenti (all’epoca erano pochi) e facevo “ricerca” (chiamiamola così) allo scopo di pubblicare lavori non rilevanti sul piano scientifico ma funzionali alla mitica libera docenza: quei tre giorni di esami scritti e orali che si concludevano con una lezione frontale di 45 minuti (esatti) su di un tema scelto dalla severissima commissione. Se tutto andava bene si partiva per Roma come Dott e si tornava Prof (cosa che veniva più o meno discretamente segnalata alle infermiere): l’inizio del percorso verso una cattedra o (almeno) verso un primariato di prestigio.

E poi in un decennio, almeno per me, la realtà divenne complessa e tutto cambiò.

All’inizio fu l’irruzione della politica nel quotidiano.
All’epoca la politica era una roba delegata ai partiti, e che partiti! DC e PCI… La maggior parte di noi era “vicina” all’uno o all’altro ma senza scaldarsi troppo… A dirla chiaramente, della politica -a parte qualche scontro verbale su USA e URSS- ce ne fregava abbastanza poco.

Nel luglio del 1960 la politica piombò inattesa nelle piazze, coinvolgendo non solo, come in genere accadeva, lavoratori in sciopero ma cittadini qualsiasi come noi. Le manifestazioni di Genova contro un governo eletto coi voti del MSI si estesero in tutto il Paese; la polizia sparava facile… Si giunse ai cinque giovani morti di Reggio Emilia che ancora oggi ricorda la canzone di Fausto Amodei.
Il governo cadde e noi ci rendemmo conto che la politica ci riguardava, eccome, e che il potere non apparteneva ai partiti ma ai cittadini: delegarlo era pericoloso e qualche volta letale.

Nel 1962 la Grande Paura: la crisi dei missili a Cuba. Alcuni colleghi che avevano parenti in altre regioni partirono nella notte per essere vicini alla famiglia quando sarebbe esplosa l’atomica. Poi il buon senso di Chruscev e di Kennedy prevalse.
Nel 1963 J.F. Kennedy fu assassinato.

Queste date per le due generazioni che seguono sono storia, ma all’epoca furono punti di svolta: tutti o quasi ci ricordiamo cosa stessimo facendo quando ci giunse la notizia dell’attentato di Dallas.   
I fatti ci mostravano con dolorosa violenza che eventi anche molto lontani da noi potevano ad ogni momento coinvolgerci direttamente; rinchiuderci nelle corsie e nei laboratori nel tentativo di ignorarli era comunque, consapevole o no, una scelta politica.

Un’altra dimostrazione di ciò fu la guerra del Vietnam (1965-1972), che vide una grande potenza impegnarsi molto al di là dei suoi confini a sterminare, oltre al “nemico”, migliaia dei propri cittadini. Dopo soli vent’anni dalla fine di un’altra guerra di sterminio eravamo di nuovo tutti in pericolo: nefasto risultato della delega incontrollata al potere di ogni aspetto della nostra vita.

Inclusa la salute. Molti di noi si resero conto che quelle “ricerche” in genere irrilevanti da pubblicare su irrilevanti riviste in funzione della docenza, utilizzavano di fatto i pazienti come cavie, somministrando ad essi farmaci ed esami clinici che nulla avevano a che fare con i loro problemi di salute. È del 1967 la pubblicazione in inglese di “Human Guinea Pigs” (Cavie umane) di Pappworth ma la consapevolezza di avere tradito l’etica professionale e la fiducia dei malati cominciava ad emergere: il “sièsemprefattocosì” non era più sufficiente a giustificarci.

Gli studenti iniziarono a mettere sotto processo tutto il sistema didattico, scientifico e clinico. Mi viene da dire che non fummo noi docenti i “cattivi maestri” ma lo furono loro nei nostri confronti, nel senso che contribuirono a coinvolgere alcuni (non molti per la verità) di noi nella critica al sistema di cui eravamo elementi.

Gli echi della rivolta di Berkeley (1964) e della nascita del Free Speech Movement, e più in generale di una controcultura, risuonavano forti anche da noi.
Controcultura che nel caso della Facoltà di Medicina significava portare il discorso sulla salute fuori dall’università, fuori dagli ospedali, fuori dal monopolio medico, nel mondo reale per individuarne e mostrarne, insieme ai lavoratori e ai cittadini, gli aspetti sociali, le collusioni più o meno celate col potere.

In alcuni aspetti della salute questo intreccio tra elementi clinici e sociali era particolarmente evidente, mostrando dei punti di fragilità del potere. Tra questi la medicina del lavoro, il disagio mentale, la dipendenza dall’industria del farmaco.

Su quest’ultimo aspetto la tragedia della Talidomide e il colpevole ritardo da parte di molte nazioni, inclusa l’Italia, nel ritiro del farmaco dal commercio aprirono gli occhi a molti sulla “indipendenza” della ricerca scientifica.

Quanto al lavoro, che esso fosse causa di patologia e di morte era così generalmente noto da apparire “normale” come l’influenza d’inverno; e del resto ancora oggi le tre morti quotidiane per cause lavorative non occupano certo le prime pagine dei giornali e suscitano al massimo qualche autorevole commento scandalizzato.
È del 1969 la fondamentale dispensa sindacale (coordinata da Ivar Oddone) sui fattori di rischio negli ambienti di lavoro, individuati in prima persona, a partire dalla loro esperienza, dai lavoratori e non definiti dagli “esperti”. Contrariamente a un detto oggi alla moda e all’epoca ancora più accettato, la medicina, per “scientifica” che sia, è e deve essere “democratica”.

Il problema del disagio mentale mise in evidenza il ritardo della psichiatria accademica. Furono i giovani e spesso gli studenti a scoprire autori come Laing (“L io diviso”, testo cult, venne tradotto solo nel 1969, quattordici anni dopo l’edizione originale!), Cooper, Szasz (“Il mito della malattia mentale”, 1966). Del 1968 è “L’istituzione negata”, testo curato da Franco Basaglia, dopo il quale la psichiatria italiana (e non solo) non è più stata la stessa.

Contrariamente a quanto molti critici del Movimento degli anni Sessanta (che allora non c’erano o erano già schierati sull’altro fronte) oggi sostengono, gli studenti non si limitavano a occupare le aule e a far casino in piazza: studiavano, e molto: controcorsi, seminari, gruppi di studio e di ricerca, confronti diretti con studiosi e ricercatori aperti alla critica (anche nei confronti degli studenti stessi) erano continue palestre di riflessioni spesso innovative, qualche volta utopistiche e ingenue ma vivaddio fuori dal coro della bravagente: quella che allora come oggi ha in orrore i cambiamenti, privilegia la delega al potere, cerca di non pagare le tasse, non ama i giovani, gli stranieri, i disabili, i vecchi, le donne se non come elettrodomestico (e per alcuni maschi ersatz della masturbazione: Karl Kraus dixit…), e considera il welfare uno spreco.

La bravagente detesta la cultura: la considera, e con buone ragioni, sospetta; i giovani all’epoca leggevano e studiavano molto. Dal 1961 i Quaderni Rossi e dal 1962 i Quaderni Piacentini pubblicavano articoli e saggi ancora oggi attualissimi, che erano oggetto di studio e riflessione tra gli studenti, così come Marcuse (“L’uomo a una dimensione, 1964) e l’immaginazione al potere (la bravagente si inchina volentieri al potere ma odia l’immaginazione…)

Alla fine degli anni Sessanta studenti e lavoratori (rivolta di corso Traiano, luglio 1969) scuotono il sistema. Molte università sono occupate fin dal 1967, a Torino viene occupato anche il principale ospedale universitario (con un discreto divertito appoggio, va detto, da parte dei pazienti e qualche volte perfino delle suore). Tra i principali esponenti un ventenne Enrico Deaglio, in seguito brevemente medico ma poi soprattutto bravissimo giornalista d’inchiesta e saggista, che in un corso o controcorso fa una proposta che ancora trovo interessante: perché la didattica medica non inizia dalla realtà anziché dalla teoria? Studiando la sbronza, ad esempio, si può risalire all’istologia, all’anatomia patologica, alla fisiologia, alla patologia, a più di una clinica, alla psicologia, alla psichiatria, alla cultura, al contesto sociale, economico, ambientale… seguendo un percorso mentale più naturale, più logico, meno frammentato e più completo.

Alla fine degli anni Sessanta mi ritrovo spaesato e confuso. Dopo un periodo londinese da ricercatore puro capisco che non è quella la mia strada. Divago con l’etologia e trascorro una giornata con Konrad Lorenz a Seewiesen… Il personaggio è affascinante, ma io non sono neanche quello… Poi nel 1970 incontro Giulio Maccacaro e trovo la strada che mi è più congeniale.

La Collana Medicina e Potere in cui (1974) esce questo libro inizia le pubblicazioni nel 1971 (“La medicina del capitale” di J.C. Polack con una prefazione di  Maccacaro, la celebre “lettera al presidente dell’Ordine dei Medici”, in cui non solo distrugge l’irrilevante personaggio ma (soprattutto) apre a una concezione della medicina radicalmente nuova che tiene conto di tutto il movimento culturale cui ho accennato e va oltre ad esso.

Dal 1974 la rivista Sapere diretta da Maccacaro fino alla sua morte (1977), e poi la rivista SE/Scienza Esperienza diretta da Giovanni Cesareo ci mantengono uniti nel proseguire quel percorso, fino a quando gli anni Ottanta (ricordate l’edonismo reaganiano? E “La società non esiste” della Thatcher?) rimettono tutti in letargo.

Ora parecchi scossoni sembrano far presagire un risveglio, a cui è meglio giungere non impreparati. Molte riflessioni di cinquant’anni fa (in primo luogo non delegare a nessuno -tanto meno ai piani alti- la propria vita) sono di nuovo attuali, sia pur coi necessari aggiornamenti: in fondo sono passate due generazioni. Recuperare, rivisitare quelle riflessioni, quelle esperienze è utile: è il significato che diamo a questa riproposta editoriale.

Giorgio Bert ottobre 2017

Tags: G.Bert


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