Certezza e medicina

da "La parola e la cura" - Primavera 2006
di Pietro Greco
Con un articolo pubblicato lo scorso 27 agosto (2006 N.d.R.) sulla rivista medica "The Lancet", lo svizzero Matthias Egger, insieme a un gruppo di suoi collaboratori, ha fornito un’ulteriore e significativa dimostrazione che gli effetti clinici dei farmaci omeopatici sono del tutto simili a quelli di un placebo.
Questo risultato, ha commentato la rivista in un secco editoriale, non consente solo di decretare la «fine dell’omeopatia» come pratica medica alternativa, ma impone ai medici di essere «chiari e onesti» con i propri pazienti sui reali benefici delle cure omeopatiche e con se stessi sull’incapacità della medicina moderna di soddisfare la richiesta di cure personalizzate avanzata da quei medesimi pazienti.
A ben vedere l’articolo, con i suoi risultati, e l’editoriale che lo commenta non riguardano solo le pretese di una «medicina alternativa» frequentata da milioni di persone in Europa e nel mondo, ma sono una buona metafora – quasi una lezione – relativa ai problemi epistemologici che investono la medicina scientifica. Come possiamo separare il grano dal loglio in un’epoca in cui gli scienziati hanno raggiunto la consapevolezza che la loro impresa – la scienza – non ha un metodo d’indagine unico e universale (non ha «il metodo» di cui parlava René Descartes nel XVII secolo, anzi «everything goes», tutto va bene, come diceva Paul Feyerabend qualche anno fa) e non può raggiungere né la certezza né tanto meno la verità assoluta? Siamo condannati a un imbelle e assoluto relativismo?
Le domande riguardano l’intero parco disciplinare di quella dimensione culturale che noi chiamiamo scienza, ma sono tanto più impellenti in medicina, sia perché la complessità dei fenomeni indagati esalta l’incertezza, sia perché l’interpretazione epistemologica ha – come ci ricorda l’editoriale di The Lancet – immediate conseguenze (il comportamento dei medici, le attese dei pazienti) di enorme portata sociale.
In realtà è possibile riconoscere che la scienza, sebbene non possa raggiungere certezza e verità assolute, non è una mera costruzione sociale. E che la filosofia della scienza non ci costringe affatto a un imbelle relativismo. Esiste, eccome, una differenza strutturale tra lo scienziato e lo sciamano.
In primo luogo perché, sebbene non possa raggiungere la verità assoluta, esiste una scienza esatta. Ovvero una scienza capace di raggiungere un elevato livello di spiegazione e di predizione. La scienza esatta si fonda sulla teoria – ovvero su un metodo generale per risolvere un numero indefinito di problemi – e ha tre caratteristiche:
- Le sue affermazioni non riguardano oggetti concreti, ma enti «teorici» specifici. La geometria euclidea, per esempio, parla di angoli e segmenti: enti che come tali in natura non esistono. La termodinamica parla di temperatura ed entropia, anche se in natura non esiste qualcosa che possiamo chiamare temperatura o entropia.
- La teoria scientifica utilizza una logica di tipo ipotetico-deduttivo. Propone pochi enunciati fondamentali sui suoi enti teorici (che in genere chiama assiomi, postulati o principi) e ne deduce in modo rigoroso e coerente le conseguenze. Ciò consente di individuare quello che, all’interno della teoria, è vero e quello che invece è falso. Nell’ambito della teoria termodinamica è falso sostenere che l’ordine di un sistema isolato possa aumentare.
Resta il fatto che verità e falsità individuate dalla teoria non sono assolute, ma sono verità o falsità interne al sistema teorico. Per esempio, l’affermazione che due rette parallele non si incontrano mai non è una verità assoluta. Tuttavia è una verità inoppugnabile all’interno della geometria euclidea. Naturalmente, per ogni teoria scientifica come per ogni sistema logico-formale, valgono i limiti di completezza evidenziati da Kurt Gödel. E quindi anche il concetto di verità all’interno di un sistema teorico va ben definito. - Le applicazioni al mondo reale delle teorie scientifiche avviene mediante «regole di corrispondenza» tra gli enti teorici e gli oggetti concreti. Il metodo per verificare le regole di corrispondenza tra teoria e realtà è quello sperimentale. Il metodo sperimentale varia da disciplina a disciplina e non fornisce garanzie assolute sulla verità o sulla falsità della corrispondenza tra teoria scientifica e realtà naturale. Quando verifico con un esperimento che l’entropia di un sistema isolato tende a crescere, trovo una corrispondenza perfetta con la teoria termodinamica. Ma neppure in questo caso ho la certezza che il secondo principio della termodinamica sia una verità fisica assoluta. Ho solo una teoria coerente, la teoria termodinamica (peraltro integrata con una serie di altre teorie fisiche coerenti) corroborata, per dirla con Karl Popper, da una serie enorme di esperimenti e di osservazioni. Il secondo principio della termodinamica rappresenta molto bene la realtà così come la conosciamo adesso. Ma nulla vieta, almeno in linea di principio, che tra un attimo faremo un’osservazione o realizzeremo un esperimento che viola la teoria termodinamica.
La scienza esatta può, dunque, essere definita come un processo abbastanza tortuoso e in ogni caso asintotico di avvicinamento alla realtà o, se si vuole, alla verità. Tuttavia c’è un ulteriore e decisivo carattere che distingue la «vera» scienza da altre attività culturali o anche di ricerca che non è possibile definire vera scienza. E questa caratteristica della vera scienza, come sottolinea lo storico della medicina Mirko Grmek, è la «sistematicità» con cui l’attività di ricerca verifica la corrispondenza tra teoria e realtà. Ovvero è la sistematicità con cui applica il metodo sperimentale (i metodi sperimentali).
Si dirà: tutto ciò è vero per le scienze esatte, come la fisica, ma non per le scienze biologiche e, quindi, mediche ove il rapporto tra enti teorici astratti, logica ipotetico-deduttiva e regole di corrispondenza con gli oggetti concreti è fortemente alterato da alcuni fattori che riguardano sia l’enorme complessità dei sistemi oggetti di indagine (una cellula è molto più complessa di un qualsiasi sistema non vivente; un uomo è molto più complesso di una cellula), sia la sostanziale unicità degli elementi che compongono un sistema (in un sistema elettronico, tutti gli elementi del sistema – gli elettroni – sono identici tra loro; in un sistema biologico, ogni organismo è diverso dall’altro).
A causa della intrinseca complessità e dell’approccio popolazionale che richiede il trattamento di sistemi formati da elementi unici, si dice che quelle biologiche e, quindi, quelle mediche sono scienze storiche, piuttosto che esatte. E che non ci sia spiegazione possibile in biologia come in medicina se non in una prospettiva storica ed evolutiva.
Sgombriamo subito il campo da una possibilità di equivoco. Affermare l’autonomia della spiegazione biologica e medica, non significa dire né che in biologia e in medicina una spiegazione vale l’altra, né che le spiegazioni in biologia e medicina sono indipendenti dalle scienze esatte. In primo luogo perché le scienze biologiche hanno con le scienze esatte un intreccio di rapporti così stringente da rendere la fisica e la chimica dei vincoli imprescindibili. E poi perchè anche in biologia e in medicina vale il principio della coerenza interna delle ipotesi e della sistematica ricerca di corrispondenza tra i modelli di spiegazione e i fatti osservati.
Adesso possiamo dire perché The Lancet ha ragione e perché l’omeopatia non può ambire a definirsi scienza medica. I motivi sono due. Il primo è che la teoria omeopatica contraddice i principi noti della fisica e della chimica e, quindi, la scienza omeopatica si trova fuori dalla rete che attraversa e tiene unito il campo delle scienze. Il secondo è che mancano i fatti e le osservazioni che corroborano l’ipotesi omeopatica. L’insieme di questi due fattori spinge fuori l’omeopatia dallo spazio delle scienze.
Ciò premesso, veniamo alle specifiche origini dell’incertezza in medicina. E al loro significato epistemologico. Poi verificheremo perché, malgrado l’incertezza, la medicina scientifica non prevede alcuna concessione né all’irrazionalismo né al relativismo imbelle e assoluto.
Le incertezze, in medicina, hanno origini diverse. Ogni modello di spiegazione ha le sue. E, come ci ricorda Alessandra Parodi in un bel libro, Storie di medicina, pubblicato nel 2002 dalle Edizioni di Comunità, i modelli di spiegazione in medicina storicamente sono stati e sono tuttora tanti. Per lo più non alternativi, ma complementari. C’è il modello empirico, quello anatomico, quello batteriologico, quello epidemiologico.
L’esistenza di questa pluralità di modelli non ha impedito che in passato e, nello specifico, nell’Ottocento si affermasse un’idea per così dire trasversale o, se si vuole, fondata sulla certezza: la certezza dell’esistenza, per dirla con Paolo Vineis (Il crepuscolo della probabilità, Einaudi, 1999) di una causa unica, necessaria e sufficiente per ogni evento patologico.
Un’idea falsificata dai fatti. Cosicché oggi l’idea trasversale ai modelli è che molti – la gran parte – degli eventi patologici sia il frutto di una costellazione di cause ciascuna delle quali non è sufficiente e, talvolta, neppure necessaria. Ciò richiede il passaggio da un approccio alla conoscenza (e alla cura) fondato sulla certezza a un approccio fondato sulla probabilità.
Una serie di modelli di spiegazione ci consentono di individuare parte di questa costellazione. Per esempio, il modello di spiegazione genetico-molecolare mette il luce la costellazione di cause genetiche e molecolari che concorrono alla definizione di un evento patologico. Questo nuovo modello – reso possibile negli ultimi decenni dagli sviluppi della biochimica,della biologia molecolare e della genetica – e il suo intrinseco approccio probabilistico hanno profondamente alterato l’antica dicotomia tra sano e malato e stanno facendo nascere un nuovo tipo di soggetto medico, l’unpatient: la persona sana, ma più o meno suscettibile di contrarre una malattia.
Poiché la genetica esalta l’individualità irriducibile del singolo organismo, il combinato disposto della misura della propensione alla malattia e della sua variabilità individuale, stanno facendo nascere una nuova medicina – la medicina molecolare – e un nuovo approccio clinico, fortemente personalizzato. Ciò comporta l’emergere di nuovi problemi epistemologici – come coniugare la propensione all’oggettività della scienza con l’intrinseca individualità del soggetto di studio (e di cura)? – e di nuovi problemi pratici – chi si farà carico dell’equità di accesso a questa medicina che si annuncia ben più costosa di quella che conosciamo?
Ma prima di rispondere a queste domande, occorrerà evitare due altri rischi. Il primo è quello di interpretare in chiave del tutto deterministica l’approccio genetico-molecolare. Il Dna e la cellula che lo ospita sono sistemi dinamici che coevolvono con l’ambiente circostante. Non tutto è scritto nel nostro codice genetico. E molte delle cause genetico-molecolari delle malattie emergono nel corso di un dialogo incessante con l’ambiente esterno.
Il secondo rischio è quello di cedere a una nuova tentazione positivistica e immaginare che l’uomo possa essere interamente ridotto alla sua dimensione genetico-molecolare, sia pure nel suo giusto contesto ambientale. Molte delle nostre malattie emergono anche a causa di contesti che poco hanno a che fare con la dimensione strettamente biologica e/o ecologica, ma molto hanno a che fare con la dimensione culturale e sociale. Alcune patologie, per esempio, sono causate anche dalle nostre scelte coscienti o anche dal loro riconoscimento sociale. Cos’è l’effetto placebo se non la plastica dimostrazione che persino la cura può dipendere non tanto da cause molecolari obiettive quanto dai nostri soggettivi convincimenti?
Tutta questa complessità ridondante e tutta l’incertezza associata a questa complessità ridondante non aumentano affatto il bisogno di approcci non razionali alla medicina. Al contrario, richiedono maggiore scienza per meglio spiegare e meglio curare.
D’altra parte, quando Matthias Egger e i suoi collaboratori dimostrano che le cure omeopatiche altro non sono che una manifestazione dell’effetto placebo, non ci dicono anche tutto questo? E quando il direttore di The Lancet sostiene che i medici devono essere «chiari e onesti» non solo con i loro pazienti, spiegando qual è la reale capacità di cura dei farmaci omeopatici, ma anche con se stessi, riflettendo sulla richiesta di cura personalizzata e di contatto umano che viene dai loro pazienti, non ci sta dicendo esattamente questo: che l’approccio scientifico alla pratica medica deve estendersi a ogni e ciascuna dimensione della medicina, da quella biologico-molecolare a quella antropologica e mentale?